Questi due articoli che seguono , pubblicati da l' Almanacco di filosofia di Micromega , sono attualissimi. Meritano vi si dedichi un poco di tempo .
Speso bene. Buona lettura . Franco calamida
LA COSTITUZIONE E LA SPERANZA
di Domenico Gallo
La
Costituzione della Repubblica italiana venne promulgata il 27 dicembre
del 1947 con la firma di Enrico De Nicola (Capo provvisorio dello
Stato), Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea costituente e
Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri ed entrò in
vigore il 1 gennaio 1948. Sono passati settant’anni.
E’ un tempo
storico sufficientemente lungo per fare un primo bilancio della
vitalità della nostra Carta Costituzionale, chiederci se i suoi principi
ed i suoi valori sono ancora indispensabili per il nostro futuro, se la
sua architettura delle istituzioni è ancora valida, oppure se genera
inefficienza o altri mali, come ci annunciano quasi quotidianamente da
trent’anni i suoi detrattori. E’ tempo di chiederci se il patrimonio di
beni pubblici che i padri costituenti hanno lasciato in eredità al
popolo italiano è stato ben speso o sperperato e se questo patrimonio
debba essere conservato e tramandato alla generazioni future. L’incontro
che abbiamo tenuto oggi nella sala del Senato che il Presidente Grasso
ci ha messo a disposizione si è posto proprio l’obiettivo di rispondere a
questa domande.
E’ necessario fare una premessa. La Costituzione
non è mera espressione di tecnica del diritto, essa si sviluppa lungo
quella frontiera aspra, rocciosa, battuta da venti impetuosi, dove il
diritto si incontra con la storia, dove la tecnica giuridica si innesta
con le istanze metagiuridiche della filosofia e dell’etica. Come ebbe a
spiegarci in modo magistrale uno dei padri della Costituzione, Piero
Calamandrei, nel famoso discorso agli studenti di Milano del 26 gennaio
1955:
“ In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia,
tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le
nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere
intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…”
Ci
sono gli echi del risorgimento, dei valori della Costituzione della
Repubblica romana del 1849, gli echi delle voci di Mazzini, di Cavour,
di Cattaneo, di Garibaldi, di Beccaria.
“Grandi voci lontane,
grandi nomi lontani… Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto
sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ogni
articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani
come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di
fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa,
morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato
la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte in
questa Carta.” La Costituzione, pertanto, è la traduzione
nell'ordinamento giuridico dell'annuncio portato dalla Resistenza di una
nuova società umana, cioè di un tempo e di una storia nuova in cui
fossero risparmiate per sempre alle generazioni future le sofferenze
inenarrabili che avevano patito quelle precedenti attraverso le due
guerre mondiali, l'olocausto e l'asfissia di una società priva di
libertà. Con la Costituzione ci è stato consegnato il dono della libertà
e con esso un patrimonio di beni pubblici repubblicani a suggello di un
patto di amicizia che le generazioni passate hanno stretto con le
generazioni future.
Abbiamo molto discusso in questa sede
dell’attualità dei principi e valori che la Costituzione ha insediato
nell’ordinamento giuridico ed abbiamo discusso della crescente
disapplicazione di questi principi e valori nell’ordinamento politico,
rivendicando la validità del progetto di società iscritto nella
Costituzione, ancora da realizzarsi. Siamo tutti coscienti che la
Costituzione ha una dimensione precettiva, immediatamente applicabile e
vincolante per tutti, che i giudici fanno applicare quando, per esempio,
la Corte costituzionale cancella quella norma del pacchetto di
sicurezza Maroni che vietava il matrimonio fra un cittadino italiano ed
una persona di altra nazionalità priva del permesso di soggiorno, ed una
dimensione programmatica che indica alla politica ed alle istituzioni
un dover essere e guarda al futuro.
Non a caso la professoressa
Carlassare ci ha parlato del progetto di una società più umana ed ha
definito la Costituzione come la Carta del nostro futuro.
Voglio
solo indicare un aspetto della Costituzione che ha parlato direttamente
al futuro: il tema della laicità. Per comprendere appieno la natura e il
significato del principio di laicità bisogna ricercarne la radice, essa
deriva da quella concezione dei diritti dell'uomo che nel nostro
ordinamento costituzionale ha dato origine al principio personalista.
L’articolazione forse più importante del principio personalista è
proprio la laicità.
Come si è detto, esistono nella
Costituzione dei valori supremi, ma il metro per giudicarli è la
persona umana; il che significa che non ci possono essere esigenze,
anche fondate su valori, su interessi, su dogmi religiosi o su calcoli
di utilità che consentano di attentare al valore fondante costituito dai
diritti inviolabili della persona.
Da questa concezione
dell’uomo come fondamento del diritto nasce la laicità, basata sul
principio personalista e non soltanto sugli articoli 7 e 8, 19 e 20
della Costituzione, che regolano i rapporti fra lo Stato e la Chiesa
cattolica e assicurano la libertà di religione e la libertà di
coscienza.
La laicità si fonda sul riconoscimento che il valore
uomo non è bilanciabile con altri valori, perché è un valore fondante. A
differenza di altri ordinamenti, la Costituzione non consente di fare
un bilanciamento fra l’esigenza di sicurezza di una collettività
organizzata in comunità politica e il diritto alla vita di ciascun
cittadino (infatti, la pena di morte è bandita). Ciò perché il diritto
alla vita e alla dignità essenziale della persona è assolutamente
inviolabile e non può essere superato dall’azione dei pubblici poteri..
La persona è il valore fondamentale, rispetto al quale tutto il resto
deve girare intorno, come i pianeti girano intorno al sole. In ciò
consiste l'essenza della laicità.
Questa concezione della
laicità, che è stata articolata nel 1947, ci dà un criterio per
affrontare le difficoltà che incontriamo oggi, nel 2017, nella politica,
nella cultura e nel costume. In particolare il problema della
convivenza nel nostro paese fra religioni, culture e costumi
profondamente differenti dovuto ad un evento successivo e certamente non
previsto dai costituenti: il mutamento della popolazione prodotto
dall’immigrazione. La Costituzione ci offre il criterio fondamentale di
convivenza fra diversi in una società che è divenuta necessariamente
multiculturale.
Questo criterio ci dice che prima di tutto
vengono i diritti della persona, che non si può fare nessun
bilanciamento fra i diritti inviolabili della persona e le esigenze
delle culture, delle religioni, dell’etica. La laicità spoglia
dell'onnipotenza la politica e la religione. Pertanto il principio
supremo di laicità non è un relitto di passate guerre di religioni. Come
tutti i principi supremi della Costituzione nasce dal passato ma guarda
al futuro. Parla di noi, del nostro futuro. Ci fornisce gli strumenti e
il criterio basilare per fondare la convivenza pacifica fra le diverse
culture, fra le differenti popolazioni e le differenti religioni
presenti nel nostro Paese per effetto dell’immigrazione; ci consente di
garantire i diritti delle minoranze, di difendere i diritti dell’uomo e
della donna, anche di fronte alle società e alle culture di
appartenenza.
Questo discorso sulla laicità ci permette di
meglio comprendere la dimensione al contempo precettiva e programmatica
della Costituzione. La dimensione programmatica assegna una missione
alla politica, la orienta verso un orizzonte comune nel quale sono
istituite l’eguaglianza, la giustizia sociale, la pace, il rispetto
della dignità umana, un orizzonte che unifica il popolo italiano e lo
costituisce in comunità politica aperta al futuro.
Oggi, come
allora, abbiamo ancora e sempre più bisogno di far crescere
l’eguaglianza, invece che la disuguaglianza, come avviene quando, pur
aumentando il reddito, cresce la povertà; abbiamo bisogno che il lavoro e
la dignità di ogni persona, sia posta a fondamento dell’ordinamento,
non la precarietà del lavoro e della vita; abbiamo bisogno che sia
salvaguardata la salubrità dell’ambiente, non lo sfruttamento
sconsiderato delle risorse naturali; abbiamo bisogno di una scuola
pubblica che formi il cittadino, non di un’agenzia asservita al mercato;
abbiamo bisogno di sanità pubblica ed universale, non di servizi
scadenti e per censo; abbiamo bisogno di istituzioni rappresentative
dove possano entrare le domande, i bisogni e le aspirazioni dei
cittadini, non di parlamentarti che rappresentino solo i loro capi.
La missione della politica nel progetto costituzionale è l’organizzazione della speranza.
Quando
invece, come accade nel nostro tempo la politica organizza la paura,
anziché la speranza, dobbiamo chiederci: è sbagliata la Costituzione o è
sbagliata la politica?
* * *
I MIEI 70 ANNI CON LA COSTITUZIONE
di Raniero La Valle
La
Costituzione ed io siamo cresciuti insieme. Siamo fratelli, se non
proprio coetanei. Lei è un po’ più giovane di me, perché quando è nata
io avevo 16 anni; non molti, ma abbastanza per aver conosciuto, pur da
bambino, il fascismo, il re, il duce, la guerra, le bombe in via
Nomentana, i rastrellamenti tedeschi a Porta Pia, la fame e la
liberazione. Tutto questo mi aveva fatto diventare adulto prima del
tempo, sicché quando la Costituzione nacque stavo già all’università,
studiavo diritto, e potevo capire cos’era. Però non sapevo nulla di
Dossetti, di Fanfani, di Moro, di Lelio Basso, di Nenni, di Togliatti
che sarebbero poi stati così importanti per la mia vita. In ogni caso
avevo vissuto abbastanza per rendermi conto, e non per sentito dire,
quale cambiamento essa rappresentasse, non solo rispetto alla mia vita
precedente, ma rispetto a tutta la storia da cui venivamo. Per chi aveva
vissuto, anche di sfuggita, il fascismo, la Costituzione si presentava
come una novità, come la notizia che un altro tipo di regime, di Stato,
un’altra politica erano possibili. Solo più tardi, tuttavia, mi resi
conto che la Costituzione non rappresentava solo una novità, ma
un’alternativa. E potei capire il significato più profondo
dell’affermazione di Moro, che la Costituzione doveva essere non
afascista, ma antifascista; essa non era infatti solo una regola del
gioco, per qualunque gioco, ma doveva essere la scelta di una strada
invece di un’altra, che non era solo la scelta tra due ordinamenti
politici, ma tra due visioni dell’uomo e del mondo.
Aveva detto
Moro alla Costituente, rispondendo al monarchico on. Lucifero che voleva
una Costituzione afascista: “Non possiamo fare una Costituzione
afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel
nostro Paese un movimento storico d’importanza grandissima il quale
nella sua negatività ha travolto per anni la coscienza e le istituzioni.
Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione
oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione,
per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e
della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo
impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della
vita sociale. .. Non avremmo ancora detto nulla se ci limitassimo ad
affermare che l’Italia è una repubblica, o una repubblica democratica”.
Aveva
ragione Moro: bisognava dire che venivamo da una storia, ed ora si
trattava di scegliere un’alternativa, un’altra storia possibile.
Noi
venivamo da una lunga storia, ben precedente al fascismo, in cui il
lavoro era stato considerato spregevole, più animale che umano, tanto
che all’inizio era addossato ai servi, e i signori ne erano esenti; poi,
anche dopo la fine della società signorile, il lavoro era giunto fino a
noi come lavoro schiavo, come lavoro merce, come lavoro alienato e
sfruttato; ed ecco che la Costituzione lo metteva a fondamento della
Repubblica democratica.
Noi venivamo da una storia in cui l’idea
della diseguaglianza tra gli uomini era di dominio comune, e perfino
Hegel e Croce avevano filosofato di differenze ontologiche tra mondi
umani diversi, tra popoli della natura e popoli della storia, popoli
senza Spirito e popoli invece capaci di storia; venivamo da un mondo in
cui le leggi, non solo quelle razziali, avevano assunto la
diseguaglianza come un presupposto e tuttora discriminavano classi,
caste, poveri e donne, ed ecco che la Costituzione metteva come prima
pietra l’eguaglianza senza distinzione alcuna, e faceva delle
discriminazioni, anche di fatto, il male da rimuovere.
Noi
venivamo da una storia in cui la guerra era considerata, fin
dall’inizio, il padre e il reggente di tutte le cose, poi era stata
presa come prerogativa assoluta della sovranità, come variabile sempre
pronta all’uso della politica, e infine come criterio stesso del
politico, inteso come contrasto tra amico e nemico, ed ecco che la
Costituzione consegnava alla guerra il libello di ripudio, e non
considerava più nessuno come nemico.
Noi venivamo da una storia
in cui gli Stati sovrani rivendicavano di essere legge a se stessi e non
riconoscevano che ci fosse alcuna cosa o alcun potere al disopra di sé,
ed ecco che la Costituzione metteva la sovranità nazionale dentro la
comunità degli Stati, riconosceva il diritto internazionale come potere
esterno e accettava lo scambio tra la sovranità dello Stato e un
ordinamento di pace e di giustizia tra le Nazioni.
Da tutto
questo discendeva un progetto di società; certo era solo un progetto, e
solo dopo dovevamo capire quanto quel progetto fosse difficile a
realizzarsi. Ma quando venivano i momenti più difficili, le
contraddizioni e le smentite più crudeli a quel disegno e a quelle
speranze, il solo fatto che quel progetto, pur contraddetto, ci fosse,
fosse scritto sulla carta, non fosse un vago ideale ma diritto positivo,
patto e non contratto, opera e non visione, bastava ad attivare la
resistenza, a ravvivare le forze, a salvare la Repubblica.
Lo si è
visto con i colpi di coda del fascismo, i falliti golpe, il terrorismo,
la notte della Repubblica. Ma anche in momenti meno drammatici, quando
si trattava di uscire dalla stanchezza, di aprire una nuova fase, di
riprendere un cammino, la linfa, il movente, la forza stava nel
rievocare quel progetto, nel rifarsi a quel momento fondativo della
Repubblica, per ricordarsi com’era, per chiedersi dove si era sbagliato,
per riprendere a tesserne l’ordito.
Voglio portare un solo
esempio. Nel 1976, quando la Democrazia Cristiana è stremata, il quadro
politico sta mutando e si avverte che c’è da cambiare strada, il
segretario della DC Zaccagnini scrive a un costituente, Giorgio La Pira,
che già era stato quel sindaco di Firenze che sappiamo, chiedendogli di
tornare in Parlamento. Si trattava non solo di riprendere in mano quel
disegno delle origini, ma di tornare allo spirito e alla metodologia che
lo avevano fatto concepire, cioè, dice Zaccagnini, la metodologia del
“dialogo tra tutte le componenti che” avevano concorso “ad abbattere il
fascismo” ed il suo istinto di guerra.
E La Pira accetta e gli
risponde: “Caro Zaccagnini, tu mi inviti a riprendere il progetto della
casa comune che noi costituenti concepimmo con una architettura armonica
e, in certo senso, unica ed originale, progetto che è rimasto
incompiuto”. E ne ricorda i parametri essenziali: i diritti della
persona ma, essenziali come questi, i diritti sociali, senza i quali la
libertà stessa della persona non sarebbe garantita; e ciò comportava un
mutamento: “L’accettazione strutturale dell’ordinamento
giuridico-economico non solo in totale opposizione a quello fascista, ma
anche come superamento della concezione liberale borghese perché in uno
Stato di capitalismo avanzato affidarsi alle sole leggi della libera
concorrenza e del mercato avrebbe significato la creazione di monopoli e
discriminato l’uguaglianza e la libertà. Libertà per tutti, quindi. Sì,
ma anche lavoro per tutti, ospedali, case, scuole, ecc. “. Però La Pira
constatava che le ‘attese della povera gente’ – (e qui si autocita) –
non erano state adempiute; dunque c’era più che mai “un obbligo politico
e morale” a far sì che quei valori non fossero disattesi. Per quanto
riguardava la comunità internazionale bisognava passare dalla
contrapposizione dei blocchi al superamento dell’equilibrio del terrore,
per giungere “al disarmo generale e completo, alla liberazione e al
progresso fondato sulla giustizia”.
E quanto al modo di giungervi,
diceva La Pira, “nei due ordini, quello nazionale e quello
internazionale, la metodologia è quella della ‘costruzione di ponti’, è
quella del dialogo, che tu hai tanto giustamente indicato”.
La
Pira non poté poi riprendere alla Camera, dove fu eletto, l’attuazione
di quel progetto, perché il 5 novembre 1977 morì. Ma quella VII
legislatura fu quella in cui veramente la Costituzione fu messa alla
prova. Era stato per riprendere il dialogo tra le forze popolari che
avevano fatto la Costituzione, comunisti, socialisti, cattolici, che
Zaccagnini aveva chiesto a La Pira di tornare in Parlamento; e fu per
far cadere i muri che erano stati rialzati tra di loro, che in quella
stessa legislatura noi rompemmo l’unità politica dei cattolici nella
Democrazia Cristiana e restaurammo quel dialogo dall’interno come
indipendenti nelle liste del PCI; e fu per soffocare nel sangue quel
nuovo processo costituente da cui il vecchio potere sarebbe uscito
politicamente sconfitto, che vennero le Brigate Rosse, con il sequestro e
l’uccisione di Moro.
Eppure, proprio nel momento del massimo attacco
contro di essa, la Costituzione vinse, perché quelle che furono
chiamate Brigate Rosse furono sconfitte senza leggi eccezionali, senza
stati d’assedio e senza che venissero rimesse in gioco le libertà dei
cittadini.
Però non c’è dubbio che in quella legislatura, dal
1976 al 1979, il progetto disegnato dalla Carta Costituzionale fu
intercettato, sfigurato e impedito dallo scatenarsi di una reazione
inaudita, interna e internazionale, e da lì cominciò la decadenza
italiana, che non è ancora giunta alla fine. Poi ci ha pensato la
globalizzazione economica, a cominciare da quella europea di Maastricht,
a mettere fuori gioco, se non addirittura fuori legge, i capisaldi
egualitari e solidaristici della Costituzione italiana e a espropriare
la Repubblica del compito che l’art. 3 le aveva assegnato di rimuovere
gli ostacoli che impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e
la loro partecipazione alla determinazione della politica nazionale.
Sicché
oggi celebrare i 70 anni della Costituzione, fuori di una vuota
retorica, non può che voler dire riprendere quel progetto, e difendere
l’edificio costituzionale contro i poteri antagonistici che ancora non
si sono rassegnati alle sconfitte subite nel tentativo di abbatterlo, e
certamente torneranno alla carica. Il 4 dicembre non abbiamo vinto per
sempre.
Tuttavia questo non basta più, perché oggi siamo di fronte a
una nuova sfida altrettanto epocale di quella che affrontammo nel 900. A
metà del Novecento ci si trovò di fronte al fallimento della politica e
delle sue dottrine che avevano portato il mondo alla catastrofe.
Oggi siamo di fronte al fallimento dell’economia e delle sue dottrine che non sono più in grado di reggere la vita del mondo.
L’economia
fallisce perché quando aveva sacralizzato la legge della domanda e
dell’offerta, aveva proclamato la sovranità e l’efficienza della mano
invisibile del Mercato e aveva messo la concorrenza, la competizione e
il profitto a governare i processi, o quando per altro verso aveva
basato tutto sul valore-lavoro, aveva dinnanzi a sé un Mercato fatto da
persone umane, merci prodotte da lavoro umano, transazioni fatte da
operatori umani e padroni fatti di capitalisti umani. Ma oggi enormi
volumi di domanda e offerta sono scambiati non tra uomini, ma tra
circuiti informatici automatizzati, spesso alla velocità di un
milionesimo di secondo, il mercato è gestito dalle macchine, le merci
sono prodotte da macchine che dialogano con altre macchine, e i
capitalisti sono essi stessi figure alienate di sistemi impersonali
altrimenti che umani. Per questa ragione come ha detto qualche giorno fa
il prof. Dogliani a un’assemblea dell’Associazione per il rinnovamento
della sinistra, non c’è più solo il problema caro alla sinistra del
lavoro sfruttato, precario, alienato, ma c’è il problema che il lavoro è
soppresso; in quanto costo di produzione da ridurre o da abbattere, il
lavoro umano è soppresso. Ciò è avvenuto non gradualmente, in tempi
fisiologici, come all’inizio della rivoluzione industriale, quando il
luddismo non era giustificato, ma è avvenuto con enorme rapidità, anche
perché sono stati fatti massicci investimenti nell’innovazione
tecnologica proprio allo scopo di distruggere lavoro umano; oppure per
delocalizzarlo in zone meno protette, dove non costa nulla, o
addirittura c’è di nuovo il lavoro schiavo; come ha spiegato l’altro
giorno Luigi Ferrajoli a Napoli, ci sono 45,8 milioni di schiavi oggi
nel mondo, di cui 18,35 solo in India; ma ciò devasta il lavoro
salariato dappertutto.
La perdita del lavoro fa sì che oggi negli
Stati Uniti l’unico lavoro che aumenta è quello della cura alle
persone, ed è lì che si realizza la tanto lodata mobilità e il
magnificato abbandono del mito del posto fisso; solo che perché di
questo lavoro ce ne sia abbastanza per tutti, bisognerebbe augurarsi che
tutto il mondo si trasformi in un immenso cronicario.
E il
fallimento dell’economia sta in ciò: che produce sempre più merci e
altre utilità, a basso costo e con alti profitti, ma scarta i
lavoratori, li rende esuberi e superflui, e così li esclude dalla vita;
ma in tal modo scarta anche i consumatori, e così non si può più né
comprare né vendere, ciò che non a caso nell’Apocalisse di Giovanni è
considerato un segno della fine; e perciò l’economia che uccide, come
dice papa Francesco, uccide anche se stessa; e per questo l’altro ieri,
nel messaggio di Natale, egli ha messo insieme i venti di guerra e “il
modello di sviluppo ormai superato che continua a produrre degrado
umano, sociale e ambientale”. Superato, cioè finito.
Questo vuol
dire però oggi, settant’anni dopo, tenendo ben ferma la Costituzione che
abbiamo, aprire una nuova stagione costituente, ma ormai per un
costituzionalismo non solo italiano, ma globale, tanto quanto lo è la
globalizzazione. Una stagione costituente che, mettendo in sicurezza le
conquiste già raggiunte, cambi il disegno dell’ordine economico del
mondo, così come nel Novecento cambiammo il disegno del suo ordine
politico.
Io credo che questa sfida, questo compito, siano alla nostra portata, siano alla portata delle giovani generazioni.
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Ultimo aggiornamento : 07-01-2018 16:57
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